Dott.ssa Claudia Iannotta
Centro di Psicologia e Neuropsicologia - Torino
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Che cos'è la Sclerosi Multipla
La sclerosi multipla è una malattia demielinizzante progressivamente invalidante che colpisce il sistema nervoso centrale. E’ chiamata sclerosi perché comporta un indurimento o cicatrizzazione dei tessuti nelle zone danneggiate con conseguente perdita della loro funzionalità; multipla perché vengono colpite molte aree del cervello e del midollo spinale.
E’ caratterizzata da chiazze multiple di demielinizzazione o "placche", disseminate in senso spaziale ma anche temporale, in quanto le lesioni si formano a più riprese nel tempo, accumulandosi. Le aree di localizzazione preferenziale, sono: la sostanza bianca periventricolare, il nervo ottico, il tronco dell’encefalo, il cervelletto e il midollo spinale. La demielinizzazione degli assoni delle cellule del sistema nervoso, determina alterazioni delle prestazioni sensitivo-motorie, a causa della riduzione della velocità di conduzione degli impulsi, compromettendo anche gli aspetti cognitivi e comportamentali.
L’esordio
La sclerosi multipla esordisce in genere fra i 20 e i 40 anni con un picco intorno ai 30 anni; la prevalenza è maggiore nelle donne con un rapporto di 3:2 sugli uomini. In Italia vi sono circa 50.000 persone colpite da questa malattia, con un rapporto di circa 1:1.500-2.000 abitanti. In tutto il mondo i malati di sclerosi multipla sono circa un milione.
La causa
La causa della sclerosi multipla (S.M.), non é ancora conosciuta; i pazienti con S.M. presentano numerose alterazioni del sistema immunitario, ma non è ancora certo se queste siano la conseguenza del processo morboso, in risposta ad una infezione virale, o la causa del processo stesso. L’ipotesi maggiormente supportata è quella di malattia infiammatoria "auto-immune", probabilmente causata da un virus. Il sistema di difesa dell’organismo inizierebbe a considerare la mielina presente nel sistema nervoso centrale come estranea, distruggendola gradualmente. Esiste sicuramente una predisposizione genetica: nei parenti di primo grado dei pazienti con S.M. il rischio di sviluppare la malattia è circa quindici volte maggiore che nella popolazione generale, in particolare tra fratelli. La componente genetica potrebbe intervenire a regolare la suscettibilità dei soggetti a determinati fattori esogeni. Anche l’ambiente può svolgere un certo ruolo: questa malattia é cinque volte più frequente nelle zone temperate (come gli USA e l’Europa), rispetto alle regioni tropicali.
I sintomi
I sintomi della S.M. dipendono dalle aree del sistema nervoso che sono state colpite; ciò rende ragione della variabilità intra ed interindividuale della sintomatologia. Possono essere interessate in senso lesionale, e quindi deficitario, la funzione visiva (offuscamento visivo, diplopia, raramente perdita totale della vista), motoria (debolezza, spasticità, paralisi o paresi di uno o più arti), sensitiva (formicolii, parestesia, dolore muscolare), la coordinazione dei movimenti (perdita di equilibrio, tremore, atassia), il linguaggio (rallentamento, pronuncia difettosa, cambiamenti nel ritmo), il controllo della vescica urinaria (necessità di minzione frequente e/o impellente), l’attività sessuale (impotenza, perdita di sensazione), inoltre si possono avere disturbi cognitivi (problemi di memoria, di concentrazione, di giudizio e ragionamento) ed emotivi.
Il decorso
Il decorso della malattia, è variabile: alcune persone sono minimamente affette dalla malattia, mentre in altre, essa progredisce rapidamente fino alla disabilità totale. Nella maggior parte dei casi la malattia procede per ricadute, con comparsa di un sintomo clinico, che regredire parzialmente o completamente in 1 o 2 mesi. Le ricadute sono più frequenti nei primi anni della malattia, successivamente diminuiscono e il decorso può diventare progressivo. La durata media di sopravvivenza dopo i sintomi di esordio è superiore ai trent’anni. In base al decorso, si distinguono quattro forme cliniche principali di sclerosi multipla.
La S.M. recidivante-remittente ha una frequenza di circa il 25%; è caratterizzata dal susseguirsi di attacchi (poussées, esacerbazioni, ricadute o recidive), costituiti dall’insorgenza acuta di disturbi neurologici, con la comparsa di nuovi sintomi o aumento della severità di sintomi già presenti, che tendono per lo più alla regressione totale o parziale. Con il trascorrere del tempo la regressione tende a farsi sempre meno completa (forma remittente con esiti) finché, dopo 5-20 anni in media si assiste spesso ad un "viraggio" verso la forma secondariamente progressiva. La malattia può rimanere inattiva per mesi, oppure per anni.
La S.M. secondaria progressiva ha una frequenza di circa il 40%; é costituita da quelle forme recidivanti-remittenti che hanno perso il caratteristico andamento intermittente e presentano un peggioramento costante (andamento progressivo) con una significativa disabilità.
La S.M. primaria progressiva ha una frequenza di circa il 15%; é caratterizzata da un andamento cronico fin dall’inizio senza "intervalli" liberi da disturbi neurologici e da un decorso progressivamente ingravescente. Questa forma ha in genere esordio tardivo (dopo i 40 anni), e tende ad essere caratterizzata per lo più da disturbi motori.
La S.M. benigna ha una frequenza di circa il 20%; dopo uno o due attacchi con recupero completo, questa forma di S.M. non peggiora col tempo e non determina disabilità permanente e, comunque, non superiore ad un punteggio di 3 alla EDSS (scala di valutazione della disabilità di Kurtzke) dopo 10 anni dall’esordio. Questa forma di S.M. é associata a sintomi meno severi per lo più di tipo sensorio.
La diagnosi
La diagnosi si esegue sulla base di diverse indagini cliniche e strumentali quali l’anamnesi medica (tipi di sintomi, loro esordio e andamento), l’esame neurologico (per rilevare segni neurologici quali i cambiamenti nei movimenti oculari, nella coordinazione degli arti, debolezza, equilibrio, sensazioni, linguaggio e riflessi), i potenziali evocati visivi e uditivi che rilevano un rallentamento nella conduzione della velocità nervosa di stimoli visivi ed uditivi, la risonanza magnetica nucleare (RMN), che permette di evidenziare la presenza di aree di demielinizzazione e l’esame del liquor che con la presenza di bande oligoclonali e l’aumento del livello delle immunoglobuline G (IgG), conferma la diagnosi di sclerosi multipla.
La terapia
La terapia della fase acuta, è costituita dal bolo corticosteroideo, che riduce la durata e la gravità degli attacchi, ma non è in grado di rallentare o di arrestare la progressione della malattia. I farmaci utilizzati allo scopo di ridurre la progressività della malattia sono costituiti fondamentalmente da immunosoppressori, che riducono l’attività del sistema immunitario e, recentemente dall’interferone beta-1b, che riduce anche il numero delle poussées. Questo farmaco ha dimostrato un’efficacia elevata nel ridurre la progressione della malattia, monitorata alla RMN, ed il numero delle recidive, inoltre, ha una tollerabilità superiore agli immunosoppressori. Un altro farmaco sperimentato nelle prime fasi della malattia, è il copolimero 1 (polimero di quattro amminoacidi: L-acido glutammico, L-alanina, L-tirosina, L-lisina). Oltre ai farmaci altri strumenti importanti per sfruttare al meglio le risorse residue dell’individuo sono la riabilitazione e la psicoterapia singola o di gruppo. Quest’ultima può aiutare il malato e la sua famiglia a reagire contro la depressione e l’ansietà causate dalla sclerosi multipla.
I disturbi cognitivi
Nella sclerosi multipla la frequenza delle disfunzioni cognitive varia dal 30% al 70% dei casi e il deterioramento è in generale descritto come lieve (Peyser e Poser,1986). Non vi è alcun dubbio che negli ultimi stadi della malattia le capacità cognitive possano diminuire (McKhannan,1982), ma vi sono stati molti dibattiti in relazione al fatto che i cambiamenti cognitivi si possano presentare anche nella forma lieve di sclerosi multipla (Rao,1986), o già all’inizio della malattia stessa (Jennekens-Schinkel e Sanders,1986).
Il tipo di deficit e la sua gravità dipendono dalla localizzazione delle lesioni cerebrali: vi è una sorprendente associazione tra la sede della lesione e il deterioramento cognitivo (Ryan et al.,1996).
Una delle funzioni maggiormente colpite nei pazienti con S.M. è la memoria, che risulta maggiormente compromessa nella fase di apprendimento rispetto a quella di ritenzione, che si mantiene invece a lungo efficiente (Heaton et al.,1985). I deficit nella memoria verbale a lungo termine sono associati ad un significativo rallentamento dell’elaborazione dell’informazione (Litvan et al.,1988). Per lungo tempo si credette che i problemi relativi alla memoria si riferissero esclusivamente alla memoria a lungo termine, ma in seguito ad alcune ricerche (Beatty et al.,1989; Grant et al.,1984), emersero deficit anche a livello della memoria a breve termine. Altra funzione che risulta deficitaria nella S.M. è l’attenzione, probabilmente compromessa dal rallentamento cognitivo notevole riscontrato in soggetti con S.M. moderatamente deteriorati rispetto ad un gruppo di controllo. Questi soggetti dimostrano un rallentamento nel processo di elaborazione dell’informazione (Kujala et al.,1995). Anche la capacità di problem-solving e di ragionamento astratto risultano inferiori alle prestazioni medie di un gruppo di controllo, infatti i soggetti con S.M. commettono più errori nell’individuare le categorie al Wisconsin Card Sorting Test (WCST) e commettono più errori totali del gruppo di controllo e producono più risposte perseverative (Beatty and Monson,1996). I deficit nelle abilità visuo-spaziali sono associate a varie lesioni all’interno del corpo calloso (Ryan et al.,1996). Il linguaggio sembra essere ben conservato anche se possono essere riscontrati disturbi nella produzione dovuti a disartria, ipofonia, più rari sono invece l’afasia, l’alessia e l’agrafia. L’atrofia riscontrata nelle aree anteriori del corpo calloso in pazienti di sesso femminile con S.M. recidivante-remittente condiziona fortemente le prestazioni nei compiti di fluenza verbale (Pozzilli et al.,1991).
Discordanti sono i dati relativi alla relazione fra il deterioramento cognitivo e altre variabili quali l’età, la durata e il decorso della malattia, l’invalidità fisica e lo stato psicologico. Alcuni autori (Filippi et al.,1994) hanno evidenziato come solo le variabili cliniche relative al decorso della malattia e lo stato psicologico erano correlate alle performance neuropsicologiche nei pazienti affetti da S.M. Altri autori (Beatty et al.,1995), invece, notarono la mancanza di utili relazioni predittive fra l’età, lo stato di invalidità, la durata della malattia, e la gravità del deterioramento cognitivo. La disfunzione cognitiva, è però positivamente correlata con l’invalidità fisica (Rao et al.,1991). Esiste una stretta relazione fra l’invalidità fisica e il funzionamento cognitivo in quanto pazienti con grave invalidità fisica presentano un grave deterioramento cognitivo (Franklin et al.,1988).
Correlazione tra deterioramento cognitivo e disabilità fisica
Il deterioramento delle funzioni cognitive è anche indipendente dalla disabilità fisica misurata con la scala di invalidità di Kurtzke EDSS (Bernardin et al.,1993; Stenager et al.,1994), ma non in tutti gli studi ciò viene confermato, e le due variabili sembrano a volte evolvere in parallelo (Kujala et al.,1997), specialmente in stadi avanzati della malattia (Marsh,1980).
Correlazione tra funzioni cognitive e variabili cliniche
L’andamento delle funzioni cognitive sembra essere correlato con alcune variabili cliniche e demografiche, ma anche in questo caso si hanno risultati discordanti.
La variabile clinica che si ritiene determinante nel predire disturbi nelle prestazioni cognitive è il decorso della malattia, in quanto i pazienti con S.M. cronico-progressiva spesso hanno delle prestazioni inferiori, su compiti cognitivi, a quelle dei pazienti con S.M. recidivante-remittente. Ma il decorso delle diverse forme di malattia e in particolare la proporzione di pazienti realmente aderenti ad una specifica tipologia di malattia col trascorrere del tempo, non è stato ancora definito prospetticamente. Goodkin et al. (1989) in uno studio longitudinale durato 4 anni su 425 pazienti con S.M., di cui 336 con S.M. clinicamente definita e 89 con S.M. clinicamente probabile, hanno classificato i pazienti all’inizio dello studio in quattro gruppi corrispondenti a diverse forme di malattia (stabile, recidivante-remittente stabile, recidivante-remittente progressiva, cronico-progressiva), e li hanno riclassificati dopo 2 anni sulla base della presenza o meno di esacerbazioni, di cambiamenti alla scala di disabilità EDSS e all’Ambulation Index (AI), in questi primi anni di follow-up. Questi pazienti venivano poi seguiti nel terzo e quarto anno per valutare la stabilità del tipo di S.M. I risultati indicano che un numero altamente significativo di pazienti cambia tipologia durante il follow-up. Sembra, dunque, discutibile che l’assegnazione ad una specifica tipologia di S.M. possa avere un valore pratico quale quello di implicare un futuro decorso della malattia o un particolare livello di funzionamento cognitivo, proprio a causa del decorso altamente variabile riscontrato. Si osservano, infatti, stabilizzazioni e progressioni della malattia senza alcuna relazione alla tipologia assegnata inizialmente. Il cambiamento nelle prestazioni cognitive appare essere indipendente dal decorso della malattia, come dimostrato anche da Bernardin et al. (1993) in uno studio longitudinale, su 100 pazienti con S.M. e 100 soggetti di controllo, durato 3 anni.
Altra variabile clinica in relazione con la durata della malattia e con il deterioramento nelle prestazioni cognitive ai test neuropsicologici, è il numero di esacerbazioni o ricadute. L’esacerbazione è stata definita come la percezione di un peggioramento di vecchi sintomi o l’apparizione di nuovi, accompagnata da un peggioramento di più di 0,5 punti alla scala EDSS o più di 1 punto alla Ambulation Index (AI), della durata di più di 5 e meno di 60 giorni. La quota annuale di esacerbazione è la proporzione di pazienti aventi esacerbazioni per anno; la quota annuale totale di esacerbazioni é il numero totale annuale di esacerbazioni all’interno di un gruppo di studio diviso il numero di soggetti nel campione per anno di studio. Si crede che la quota di esacerbazione diminuisca con l’aumentare della durata della malattia; esistono perciò preoccupazioni che il tasso di esacerbazioni possa non essere un buon indicatore dell’attività della malattia (Goodkin et al.,1989). Il tasso annuale di ricadute non é però significativamente correlato con alcuna variabile cognitiva (Amato et al.,1995).
La durata della malattia sembra anch’essa essere indipendente dai cambiamenti nelle performance ai test cognitivi (Bernardine et al.,1993), come risulta anche dallo studio effettuato da Beatty et al. (1990), i quali hanno constatato che nessuna delle variabili cliniche, compresa la durata della malattia, predice le prestazioni cognitive nei test neuropsicologici accuratamente scelti per uno studio di follow-up durato 2 anni. L’indebolimento cognitivo nella S.M. non sembra correlare con la durata della malattia (Rao,1986). In un altro studio longitudinale di 4 anni (Amato et al.,1995) si nota che la durata della malattia, al tempo del test iniziale, ha influito solo su due variabili: il test di informazione, memoria e concentrazione (IMC) e il test delle matrici progressive di Raven (RPM), in un campione di 50 pazienti con S.M. recidivante-remittente e cronico-progressiva, con età media di 29,9 anni e durata della malattia di 1,58 anni confrontato con un gruppo di controllo di 70 individui sani con un’età media di 29,30 anni. La durata della malattia sembra essere un predittore di bassi punteggi ai test di memoria verbale e di ragionamento astratto, quando sono confrontati con quelli di soggetti sani, ma solo al test iniziale; questi deficit rimangono più o meno stabili nel test finale, anche se i pazienti con S.M. hanno nuovamente punteggi complessivamente peggiori dei pazienti di controllo, ad eccezione però di quelli del test IMC. Emergono, inoltre, disturbi linguistici in particolar modo di fluenza verbale, ma non di comprensione del linguaggio, nei soggetti con S.M. L’evoluzione delle funzioni cognitive non può, dunque, essere predetta da variabili cliniche come la durata della malattia. Alla stessa conclusione giungono anche Kujala et al. (1997), in uno studio di follow-up di 3 anni, dopo aver osservato una mancanza di correlazione tra la durata della malattia e le performance ai test neuropsicologici in un campione di soggetti con S.M. suddiviso in due gruppi: "cognitively preserved" e "cognitively mildly deteriorated" rispettivamente di 20 e 22 pazienti. Anche altri autori (Cutajar et al.,1988) dopo una ricerca condotta su pazienti S.M. con una durata della malattia variabile da meno di 5 anni a più di 10 anni, concludono che questa variabile clinica non sembra avere effetti sulle prestazioni cognitive di pazienti con S.M. recidivante-remittente e progressiva, testati con la Batteria Neuropsicologica Luria Nebraska (LNNB), che rimangono abbastanza stabili nelle performance ad eccezione di quelle che richiedono attenzione e concentrazione come la scala del ritmo e nella prova di memoria verbale relativa alle associazioni di parole.
Il grado di invalidità fisica, il decorso della malattia e la sua durata, alla luce di tutti questi studi, non si possono considerare in relazione con il cambiamento nelle prestazioni neuropsicologiche.
Una variabile clinica che sembra, invece, avere qualche influenza sulle performance neuropsicologiche dei soggetti con S.M., è la terapia.
All’Università di Chicago 30 pazienti sono stati suddivisi in tre gruppi di diverso trattamento: 11 soggetti con trattamento ad alto dosaggio di Interferone-beta-1b, 10 con uguale trattamento ma a basso dosaggio e 9 con trattamento placebo. Sono stati poi sottoposti ad una breve batteria di misure neuropsicologiche dopo 2 anni di studio e nuovamente dopo 25 mesi. Questa batteria includeva misure sui processi di informazione visiva (Trails B, test di Stroop) e di memoria (subtest di memoria logica e di riproduzione visiva della WMS). Le prestazioni dei tre gruppi differivano significativamente nel periodo di studio sulla memoria visiva. Questo risultato sembra essere correlato al dosaggio: le prestazioni dei gruppi ad alto dosaggio sono aumentate significativamente dopo due anni; il gruppo a basso dosaggio è migliorato solo leggermente; quello trattato con placebo è invece rimasto più o meno stabile. Le prestazioni del gruppo ad alto dosaggio sono anche migliorate nell’elaborazione di informazioni (Trails B), anche se l’effetto complessivo di interazione non ha raggiunto la significatività statistica. Le misurazioni neuropsicologiche hanno dimostrato un cambiamento delle prestazioni cognitive, in relazione al differente trattamento cui sono stati sottoposti i pazienti con S.M. recidivante-remittente (Plinskin et al.,1994). Gli stessi autori (Plinskin et al.,1996), in uno studio successivo, hanno voluto verificare e confermare l’effetto del trattamento con Interferone-beta su 30 pazienti, nuovamente suddivisi in tre gruppi: un gruppo con trattamento ad alto dosaggio, un gruppo con trattamento a basso dosaggio e un ultimo gruppo trattato con placebo. Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad una breve valutazione neuropsicologica e ad un’analisi con RMN due anni dopo l’inizio del trattamento; dopo altri due anni, sono stati nuovamente sottoposti ai test neuropsicologici e all’analisi strumentale con RMN. La batteria di test includeva i sottotest di memoria logica e di riproduzione visiva della WMS forma I e II, il test Trails B, lo Stroop Test, il Pegs Test e il Beck Depression Inventory (BDI). Anche in questo studio si é riscontrato un miglioramento nella memoria visiva, sia ritardata che immediata, e grazie ai dati ricavati dalle RMN, si è potuto dimostrare, tenendo sotto controllo la variabile relativa ai mutamenti alla RMN e, quindi, eliminando il suo effetto, che il miglioramento nella memoria visiva, non deriva semplicemente da una diminuzione nelle lesioni, osservata alla RMN, ma dipende dagli effetti dell’Interferone-beta. I risultati relativi al Pegboard DH performance, test che richiede attenzione e velocità psicomotoria, mostrano anche un miglioramento significativo, che perde però la sua significatività tenendo sotto controllo la variabile RMN, dimostrando così una relazione tra la velocità e destrezza della mano dominante ed il carico di lesioni misurato alla RMN. I punteggi del BDI non sono invece in relazione con nessuna delle altre misure neuropsicologiche. Da queste ricerche si può concludere che il trattamento con Interferone-beta-1b migliora le prestazioni nella memoria visiva. Anche studi effettuati su altri tipi di pazienti (malati di cancro), hanno dimostrato che gli effetti della terapia a base di Interferone-beta possono indurre un miglioramento nelle prestazioni neuropsicologiche relative all’attenzione (Liberati et al.,1990).
Correlazione tra funzioni cognitive e variabili demografiche
Oltre alle variabili cliniche, anche le variabili demografiche quali il sesso, l’età e gli anni di scolarità, possono essere in relazione con le performance neuropsicologiche nei soggetti con S.M. Uno studio in particolare, durato 2 anni, si è occupato di verificare questa relazione (Beatty et al.,1990), attraverso un campione di 85 pazienti, di cui 42 con S.M. recidivante-remittente (RR) e 43 con S.M. cronico-progressiva (CP) sottoposto a test neuropsicologici. L’età media del campione era di 43,6 anni, l’età media di scolarizzazione di 14 anni e la durata della malattia (dalla diagnosi) era di 11,6 anni. Il campione aveva, inoltre, un punteggio medio di 4,4 alla scala EDSS e di 4,0 alla AI. I pazienti del gruppo CP erano significativamente più anziani e con una invalidità e durata della malattia maggiore rispetto ai pazienti del gruppo RR; i gruppi non differivano però per educazione. La batteria neuropsicologica utilizzata era composta da test per valutare lo stato mentale globale (Mini-Mental State Examination), la depressione (Beck Depression Inventory), la capacità di riconoscimento di volti (forma abbreviata del Benton Facial Recognition Test), le abilità di problem-solving (Wisconsin Card Sorting Test), la produzione di parole attraverso la denominazione di oggetti (Boston Naming Test) e la velocità nell’elaborazione di nuove informazioni (versione orale del Symbol Digit Modalities). Si sono utilizzate anche misure di apprendimento e di memoria anterograda a lungo tempo (lista composta da 14 parole non in relazione tra loro), ed anche di memoria a breve termine (Brown-Peterson task). La batteria di memoria remota comprendeva domande su famosi eventi e personaggi pubblici dagli anni cinquanta agli anni ottanta. Si sono anche usate misure di fluenza verbale (fluenza di parole e di categorie). I risultati indicano che con l’aumentare dell’età e con il diminuire dei livelli di scolarità, si hanno prestazioni più scarse nella velocità di elaborazione delle informazioni, nella memoria verbale a breve termine e nella risoluzione di problemi. Le prestazioni più scarse su tutte le funzioni cognitive, eccetto che per la memoria remota, sono associate con una maggiore durata della malattia e maggiore invalidità. Le prestazioni dei soggetti maschi erano in qualche caso peggiori rispetto a quelle dei soggetti di sesso femminile nel test Symbol Digit Modalities, nella memoria verbale a lungo termine, nel test di fluenza verbale di categorie, nel Benton Facial Recognition Test. Questa differenza era significativa nei soggetti con la forma RR, mentre per i soggetti con la forma CP vi erano tendenze simili ma non significative. I soggetti maschi e femmine non differivano per età all’epoca della diagnosi nè al tempo dell’esame, dunque, questi fattori non possono giustificare le prestazioni peggiori in alcuni test dei soggetti maschi. Il sesso e la scolarizzazione dei pazienti si sono dimostrati predittori statisticamente significativi di alcune misure cognitive. Non mancano però dati in contraddizione con quelli appena descritti. In un altro studio, non si é trovata alcuna relazione tra il deterioramento di alcune funzioni cognitive in un arco di tempo di 5 anni e il sesso (Stenager et al.,1994).
Andamento degli aspetti cognitivi nel tempo
Oltre il 50% dei soggetti affetti da S.M. mostra evidenti segni di impoverimento cognitivo, ma non si conosce ancora una stima precisa relativa all’evoluzione di questi deficit durante il procedere della malattia. Il deterioramento cognitivo, rilevato dalle misurazioni neuropsicologiche, é in genere relativo alla memoria recente, all’attenzione, alla velocità dei processi di informazione, al ragionamento astratto, alle funzioni esecutive e alla percezione visuo-spaziale. In contrasto, l’intelligenza generale, il linguaggio ed alcuni aspetti della memoria quali la memoria a breve termine e la memoria implicita, sono risparmiati (Rao,1995). Risulta, invece, deficitaria la memoria verbale a lungo termine (rievocazione dopo 15-20 minuti) e la memoria spaziale a breve termine (Crimi e Levedianos,1988). Un mutamento cognitivo si osserva anche nell’apprendimento uditivo-verbale (Stenager et al.,1994), nella fluenza verbale, nell’abilità di calcolo.
La gravità e il tipo di disfunzione cognitiva sembrano altamente correlate con il numero e la localizzazione delle lesioni dovute alla degenerazione della sostanza bianca negli emisferi cerebrali. I mutamenti nelle prestazioni ai test cognitivi nel tempo sono correlati con l’incremento del carico delle lesioni alla risonanza magnetica nucleare in modo significativo già dopo un anno (Hohol et al.,1955). Il deterioramento neuropsicologico associato all’aumento delle lesioni cerebrali è ancora più evidente dopo 3 anni (Rao,1995). Non in tutti gli studi si hanno però delle correlazioni significative tra manifestazioni neurologiche, numero, localizzazioni delle placche e deficit neuropsicologici; alcuni casi di S.M., possono essere caratterizzati da soli sintomi neuropsicologici (Ron e Fernstein,1992; Rao,1985; Lyon-Caen et al.,1986).
Non vi sono al momento molti studi longitudinali di valutazioni neuropsicologiche, anche volendo dare uno sguardo indietro nel tempo. Il primo studio longitudinale effettuato per valutare l’evoluzione delle prestazioni cognitive nel tempo, risale probabilmente al 1951. In questo studio, Canter ha osservato una caduta altamente significativa nel punteggio del quoziente di intelligenza (QI) di 23 soggetti di sesso maschile, sani al momento della prima valutazione, all’ingresso del servizio militare, ma affetti da S.M. quando sono stati ritestati circa 4 anni più tardi. Canter ha dimostrato, nello stesso lavoro, una differenza significativa nelle performance al test e al retest di un più largo gruppo di pazienti con S.M. comparato con soggetti di controllo. La prestazione dei pazienti con S.M. peggiorava alla seconda valutazione, effettuata dopo un intervallo di 6 mesi, mentre quella dei soggetti di controllo migliorava. Ha inoltre osservato una perdita generale di velocità motoria interpretata in termini di una rallentata capacità di elaborazione delle informazioni. Nel 1966 Fink e Houser hanno rilevato, a distanza di un anno, un aumento del quoziente di intelligenza verbale (QI), alla scala Wechsler di intelligenza per adulti (WAIS), in 44 pazienti S.M. non ricoverati in ospedale, con una durata della malattia di non più di 5 anni, ed hanno osservato, attraverso un confronto intra-individuale, un decremento del QI con l’aumentare dell’invalidità fisica in ogni singolo paziente. Hanno dunque rilevato, contrariamente a ciò che aveva osservato Canter, un miglioramento significativo nelle prestazioni cognitive, giungendo alla conclusione di assenza di deterioramento delle funzioni intellettive nei soggetti affetti da S.M.. Nel 1978 Ivnik ha osservato un deterioramento marcato nei compiti che richiedono un coordinamento motorio e nei compiti cognitivi con componenti motorie, in 14 pazienti S.M. esaminati con un intervallo medio tra test e retest di circa 3 anni; i punteggi relativi ai test delle più elevate funzioni cognitive, tra cui anche la memoria non appaiono variati in modo significativo già dopo un intervallo di un anno, mentre il gruppo di controllo, costituito da 14 pazienti con verificato danno cerebrale di varia eziologia, migliora in molte prove. Questa ricerca testimonia come in realtà non si verifichi un notevole cambiamento delle funzioni cognitive in pazienti S.M., anzi si può osservare una relativa stabilità nelle prestazioni di questi soggetti. Questi articoli datati, segnalano dei dilemmi che sono ancora presenti negli studi longitudinali sull’andamento delle prestazioni cognitive nella S.M.. Gli studi mostrano una certa contraddittorietà di risultati, che indicano un progressivo declino, una relativa stabilità, e più raramente un leggero miglioramento degli aspetti cognitivi. La contraddittorietà tra questi risultati, può essere dovuta ai diversi fattori metodologici utilizzati dai vari studi longitudinali, come il tempo di follow-up, che mediamente varia dai 6 mesi ai 5 anni, la differenza delle variabili cliniche dei soggetti testati, i metodi neuropsicologici utilizzati, l’etereogeneità dei soggetti in relazione a fattori sia fisici che cognitivi, ed anche alla restrizione delle batterie neuropsicologiche in alcune ricerche.
Negli anni successivi alle ricerche appena menzionate, non sembra che i ricercatori abbiano prestato molta attenzione a questo genere di studi. Negli ultimi dieci anni è stata invece rivolta maggiore attenzione alla possibile presenza di deterioramento cognitivo nella S.M., ma a dispetto del largo numero di studi trasversali, sono ugualmente riportati solo pochi studi longitudinali di valutazione cognitiva. Uno dei primi studi dell’ultimo decennio che si è occupato dell’evoluzione delle funzioni cognitive in pazienti con S.M., ci mostra come la contraddittorietà dei risultati delle ricerche, possa essere in realtà dovuta ad una effettiva variabilità individuale del declino cognitivo nel tempo, che sembra non apparire uniforme tra i soggetti affetti da S.M. Questo studio longitudinale é stato svolto da Jennekens-Schinkel et al. (1990), in un arco di tempo di 4 anni, su un campione di 33 pazienti con S.M., di cui 16 donne e 17 uomini, con un’ età media di 48 anni e con una media di 12 anni di scolarità, ed un campione di 18 pazienti di controllo, di cui 14 donne e 4 uomini, con un’età media di 45 anni e con una media di 11 anni di scolarità. La batteria neuropsicologica comprendeva le Matrici Progressive di Raven, il Wisconsin Card Sorting Test nella versione modificata di Nelson, la Wechsler’s Memory Scale, il Cube Imitation Test, una misura dello span di memoria non verbale, una lista di apprendimento di dieci parole con una presentazione visiva e uditiva, il 7/24 task of Pattern Learning, il Colour-Word test, che fornisce indicazioni sulla velocità di lettura e nominazione con e senza interferenze percettive; inoltre, il Naming to Confrontation test, la generazione di parole, la lettura di cento parole, la scrittura sotto dettatura, la copiatura di figure; la velocità motoria viene misurata con il tapping task, un compito di battuta. Infine si è utilizzato la versione tradotta ed adattata del test di temperamento di Guilford, l’Utrechtse Coping Lijst, ed un compito di associazione di parole. Per acquisire una stima della velocità di risposta e gli effetti dell’affaticamento, vengono misurati i tempi di reazione prima e dopo la batteria neuropsicologica. I risultati indicano che nella maggioranza dei compiti, si hanno cambiamenti in negativo o in positivo, sia nei pazienti con S.M. che nei soggetti di controllo. Le prestazioni dei pazienti con S.M. sono però significativamente inferiori ai soggetti di controllo nel test di velocità motoria, nei tempi di reazione, nei compiti di apprendimento, nella lettura ad alta voce e nella copiatura di figure; non vi sono, invece, distinzioni tra i due gruppi per quanto riguarda i compiti visuo-spaziali di problem-solving, la flessibilità comportamentale e gli aspetti linguistici di comunicazioni scritte e orali. Nel 76% dei pazienti con S.M. gli aspetti cognitivi rimangono comunque inalterati dopo i 4 anni di studio. Non si può però identificare uno sviluppo uniforme dei deficit cognitivi legati alla S.M., essendo stati riscontrati al momento del retest, stabilità, miglioramento e peggioramento. Il quoziente di memoria, ad esempio, è deteriorato significativamente in due pazienti ed é migliorato in un solo caso; lo span di memoria é rimasto stabile, in entrambi i gruppi; la prestazione relativa all’apprendimento di liste di parole non mostra deterioramento, come non lo mostra neanche la prestazione relativa al test Pattern Learning, dal quale si rileva un numero di errori persino inferiore alla stima precedente; il valore medio del test di memoria immediata di liste di parole presentate visivamente è significativamente inferiore alla valutazione precedente.
Nell’anno successivo a questo studio, un’altra ricerca di follow-up si è occupata di studiare l’andamento cognitivo in pazienti con S.M. attraverso la somministrazione di test neuropsicologici. Gli autori di questa ricerca (Mariani et al.,1991), rispetto al precedente studio, hanno voluto verificare se i risultati delle RMN, oltre a quelli dei test neuropsicologici, mostravano cambiamenti significativi in un periodo di circa 2 anni, in un campione di 19 soggetti con S.M. recidivante-remittente al tempo della prima valutazione. La batteria neuropsicologica era costituita da un test di abilità visuo-spaziale (test di giudizio di orientamento di linee di Benton), da un test di memoria verbale (simile al subtest di memoria logica della Wechsler Memory Scale), da un test di ragionamento non verbale (Matrici Progressive Colorate di Raven), da un test di produzione di parole a tempo determinato dopo suggerimento fonemico o semantico (test di associazioni controllate), un test di apprendimento non verbale (Supra-span di Corsi), un test di classificazione per la valutazione della formazione dei concetti e delle abilità di passare da una categoria all’altra (Weigl test), ed infine da un questionario autosomministrato per la valutazione di un eventuale stato depressivo (Zung Depression Rating Scale). I risultati di questo studio mostrano una sostanziale stabilità sia neuropsicologica che delle RMN. Alcuni singoli pazienti, tuttavia, mostrano variazioni alle performance neuropsicologiche o ai risultati delle RMN, anche se lievi; 4 pazienti mostrano una evoluzione clinica della malattia nella forma cronico-progressiva.
Il deterioramento cognitivo non appare essere così scontato, perlomeno nella forma recidivante-remittente di S.M. nella quale, invece, si può notare una relativa stabilità nelle prestazioni cognitive, ed eventualmente un lieve peggioramento solo in alcuni pazienti, o soltanto in alcune funzioni cognitive, come confermano anche gli studi successivi a quelli appena descritti. Bernardin et al. (1993) osservarono un decadimento cognitivo, relativo al 28% delle misurazioni effettuate su 100 pazienti in un arco di tempo di circa 3 anni, confrontati con un gruppo di controllo di pari numerosità. Soltanto 8 su 29 misurazioni cognitive ottennero un punteggio inferiore nel retest. Il decadimento cognitivo di questi pazienti era relativo a specifiche funzioni quali l’intelligenza e la fluenza verbale, la memoria e la percezione visuo-spaziale; l’attenzione, la concentrazione, la capacità di astrazione ed il linguaggio non ebbero invece un cambiamento significativo. Nello stesso anno Mattioli et al. (1993) non trovarono un declino cognitivo significativo nelle prestazioni ai test neuropsicologici, dopo circa 4 mesi, in 9 pazienti con S.M. recidivante-remittente, con lievi invalidità fisiche. I pazienti sono stati esaminati tre volte: all’inizio dello studio, dopo un periodo medio di 52,5 giorni e la terza volta dopo un tempo medio di 69 giorni dalla seconda verifica. Ogni volta sono stati sottoposti a test neuropsicologici e ad analisi strumentali (RMN con Gd-DPTA). La batteria neuropsicologica comprendeva test di memoria verbale (subtest di Memoria Logica della WMS), di ragionamento non verbale (Matrici Colorate Progressive di Raven), di percezione visuo-spaziale, sensibile ai danni dell’emisfero destro ( Test di giudizio di orientamento di linee di Benton), un test che stima la capacità di formazione dei concetti (Test di Weigl), ed infine due questionari autovalutativi (Scale di ansietà e di depressione di Zung). Le prestazioni complessive dei pazienti non sono deteriorate durante l’intero studio: i punteggi dei test non mostrano una differenza significativa sulla base dell’analisi statistica non parametrica della varianza effettuata con il test di Kruskall-Wallis. Tuttavia, il numero totale di lesioni mostra una grande variabilità da soggetto a soggetto, con un miglioramento complessivo dall’inizio alla fine dello studio. La maggioranza dei punteggi é caduto all’interno dei normali valori di controllo , con alcune eccezioni: test di Benton, il cui punteggio è peggiorato solo in 2 pazienti e il test di memoria verbale, la cui prestazione decresce in 4 pazienti al secondo esame ed in uno soltanto in tutti gli esami. Era inoltre presente una correlazione negativa tra i punteggi del test di memoria verbale e i punteggi della scala di ansietà e della depressione di Zung. Il complessivo decadimento cognitivo dei pazienti esaminati in questo studio, è lieve, per cui si può considerare abbastanza stabile l’andamento neuropsicologico di questi soggetti. Il campione, infatti, era costituito soltanto da pazienti con decorso recidivante-remittente e con lievi invalidità fisiche, che come ci si poteva aspettare, dimostrano di non avere un decadimento nei test cognitivi o, comunque, di averlo in maniera molto leggera a differenza dei pazienti con S.M. cronico-progressiva. Dimostrano, inoltre, di non avere un incremento delle lesioni, e probabilmente ciò potrebbe spiegare l’andamento cognitivo di questi pazienti, ed il mantenimento delle loro abilità neuropsicologiche. Anche a distanze di tempo maggiori, le prestazioni neuropsicologiche di pazienti con S.M. recidivante-remittente tendono a rimanere più o meno stabili. Amato et al. (1995) in uno studio su 50 pazienti con S.M. e 70 soggetti di controllo, non trovarono differenze significative nelle prestazioni dei soggetti S.M. dopo un periodo di 4 anni. Il campione di pazienti aveva un’età media di 29,9 anni, la durata media della loro malattia era di 1,58 anni e tutti i pazienti erano deambulanti. La batteria neuropsicologica con la quale sono state misurate le loro prestazioni cognitive comprendeva diversi test: il Blessed Information-Memory-Concentration Test (IMC), il Digit Forward, cinque items e il test di parole accoppiate della Rand’s Memory Battery, il Test di Corsi, il Set Test, il Token Test, un test di copiatura di disegni, e le Matrici Progressive di Raven (RPM). I pazienti con S.M., dopo 4 anni, mostrano di avere punteggi significativamente peggiori, rispetto a quelli dei pazienti di controllo, agli stessi subtest in cui avevano dimostrato una prestazione inferiore al gruppo di controllo, già al tempo della prima rilevazione (test IMC di Blessed, test di parole accoppiate e i 5 items della Rand’s Memory Battery), ad eccezione del test IMC. Inoltre, dimostrano un decadimento delle loro prestazioni al Set Test e al Token Test. Nonostante il decadimento di poche specifiche prestazioni, anche questo studio conferma la tendenza ad una relativa stabilità cognitiva nei soggetti con S.M. recidivante-remittente.
Lo studio più recente che si è occupato di valutare l’evoluzione delle funzioni cognitive in pazienti con S.M., risale a circa un anno fa. Gli autori di questo studio longitudinale (Kujala et al.,1997), hanno prestato attenzione a due diversi gruppi di pazienti, uno con funzioni cognitive preservate ("cognitively preserved"), l’altro con lievi deficit cognitivi ("cognitively mildly deteriorated"), per osservare se le condizioni cognitive di base dei pazienti, al momento dell’inizio dello studio, possano essere degli indicatori di un maggiore o minore decadimento cognitivo col trascorrere degli anni. Questa ricerca, durata circa 3 anni, è stata condotta su 42 pazienti, di cui 20 "cognitively preserved" e 22 "cognitively mildly deteriorated", e 34 soggetti di controllo. La batteria neuropsicologica utilizzata è la Mild Deterioration Battery (MDB), che comprende alcuni subtest della Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS): il subtest di analogie, il Digit Span, il Digit Symbol, il Block Design, la rievocazione di 20 oggetti e 30 coppie di parole associate, il Benton Visual Retention Test, la misurazione del tempo di denominazione di 20 oggetti. I soggetti ricevevano un punteggio di deterioramento se le loro performance su alcuni di questi test era di almeno -1,5 d.s. comparate con la norma. Se i soggetti avevano un punteggio di -1,5 d.s. in confronto alla norma, ricevevano un punto di deterioramento; se era di -2,0 d.s. due punti; se era di -3,0 d.s. tre punti. Il massimo punteggio di deterioramento possibile era di 24 punti. Alla misurazione iniziale i pazienti con 0-2 punti di deterioramento erano classificati "preserved"; pazienti con 4-12 punti, venivano inclusi nel gruppo "mildly deteriorated". In aggiunta alla batteria MDB, nel follow-up, erano inclusi altri test neuropsicologici per la misurazione della memoria (rievocazione di oggetti e di parole associate, il subtest di memoria logica della Wechsler Memory Scale, lo Spatial Recall Test), della fluenza verbale, dell’elaborazione di informazioni tra loro interferenti (Stroop Test), dell’attenzione (Paced Auditory Serial Addition Test, Pasat 1, Pasat 2), dello stato cognitivo globale (Mini-Mental State Examination). Il cambiamento longitudinale nelle prestazioni cognitive all’interno dei tre gruppi, è stato analizzato attraverso la differenza nei risultati dei test tra i punteggi iniziali e quelli relativi al follow-up. La differenza è stata calcolata per ogni soggetto e la media dei tre gruppi è stata comparata utilizzando il test non parametrico Kruskal-Wallis; per le variabili parametriche é stata invece utilizzata l’ANOVA. Il gruppo "cognitively mildly deteriorated" ha dimostrato di avere una prestazione significativamente inferiore rispetto agli altri due gruppi e, dunque, una tendenza al declino progressivo. I punteggi di deterioramento alla MDB mostrano una stabilità neuropsicologica nel gruppo di controllo e nel gruppo "cognitively preserved", ma un progressivo deterioramento cognitivo nel gruppo "cognitively mildly deteriorated", in riferimento alla memoria, all’apprendimento, alla fluenza verbale, all’attenzione e un rallentamento nell’elaborazione dei processi di informazione. Le prestazioni al Mini-Mental State Examination (MMSE) rimangono, invece, stabili in tutti e tre i gruppi. Questo sembra essere il primo studio che illustra come le funzioni neuropsicologiche di soggetti con deficit cognitivi da un lato, e soggetti con funzioni cognitive intatte dall’altro, evolvono nel tempo in pazienti con S.M. I risultati indicano che lievi deficit cognitivi osservati inizialmente in pazienti "cognitively mildly deteriorated", tendono a progredire durante il periodo di follow-up di circa 3 anni; in contrasto, i pazienti "cognitively preserved", ma con simile livello di disabilità, mostrano una stabilità nelle prestazioni neuropsicologiche. Si é inoltre riscontrata una relazione tra il deterioramento cognitivo rilevato dalla MDB e il rallentamento cognitivo, i deficit di attenzione, di memoria e di linguaggio, valutati con gli altri test neuropsicologici.
Il deterioramento cognitivo nei pazienti con S.M., specialmente in pazienti con la forma recidivante-remittente, appare essere minimo, anche dopo un periodo di tempo molto lungo. Koppi et al. (1991), in uno studio longitudinale della durata di 14 anni, hanno riscontrato su 171 pazienti, con una durata della malattia di circa 20 anni, solo un lieve grado di deterioramento cognitivo, nonostante la lunga durata del loro studio.
In conclusione, si può notare che la maggior parte delle funzioni cognitive nella S.M., specialmente nella forma recidivante-remittente, tendono a rimanere abbastanza stabili col trascorrere del tempo e solo in alcune di queste funzioni si riscontra un deterioramento. Si osservano, inoltre, modificazioni a livello soggettivo orientate verso un peggioramento delle performance ai test neuropsicologici in circa il 20% dei pazienti (Rao,1995), o più raramente verso un miglioramento, per lo più dovuto all’effetto dei farmaci di cui questi soggetti fanno uso o all’effetto di trattamenti neuropsicologici. Alcuni autori (Jonsson et al., 1993), si sono in particolar modo occupati degli effetti a breve e a lungo termine del trattamento neuropsicologico su parametri cognitivi e comportamentali in pazienti con S.M. e disfunzione cognitiva da lieve a moderata. Il campione di questo studio era composto da 40 pazienti, di cui 20 assegnati ad un trattamento cognitivo specifico, e 20 ad un trattamento caratterizzato da stimolazioni mentali non specifiche; l’assegnazione ai gruppi è stata casuale. I due gruppi non mostravano differenze statisticamente significative nelle variabili di base quali il sesso, l’età, la scolarità, il grado di invalidità valutato con la EDSS e la durata della malattia. Il campione era costituito da 6 soggetti con S.M. recidivante-remittente, 25 soggetti con S.M. secondariamente progressivi, e 9 soggetti con S.M. primariamente progressiva. La prima valutazione é stata effettuata prima dell’inizio del trattamento; la seconda valutazione, dopo circa 45 giorni dalla prima valutazione, per osservare gli effetti a breve termine; la terza valutazione a distanza di 6 mesi, per misurare gli effetti a lungo termine del trattamento. Il trattamento cognitivo specifico includeva un training cognitivo e neuropsicologico, ed impiegava i principi comuni ai programmi di riabilitazione cognitiva. Si basava sull’addestramento diretto per acquisire una maggiore concentrazione, effettuato ad esempio tramite la scrittura allo specchio di testi; la memoria veniva esercitata, con l’apprendimento di strategie come la visualizzazione, utilizzando figure di complessità crescente, liste della spesa ed appuntamenti, storie di diversa lunghezza; i pazienti con difficoltà visuo-spaziali e di orientamento, sono stati allenati in parte con giochi di mosaico ed in parte con esercizi pratici come il camminare o lo spostarsi su di una sedia a rotelle dentro e fuori dall’ospedale. Insieme al training cognitivo, i pazienti presero parte ad una neuropsicoterapia per comprendere ed accettare il loro attuale livello di funzionamento cognitivo e comportamentale, imparando come usare al meglio le risorse residue. La stimolazione mentale non specifica consisteva in una stimolazione diffusa come la visione di film, la discussione di articoli di giornale, il giocare a vari giochi senza relazione alcuna con l’allenamento mirato a disfunzioni cognitive specifiche. I risultati di questa ricerca indicano un miglioramento significativo in molti fattori cognitivi immediatamente alla fine del trattamento. L’analisi degli effetti a breve termine del trattamento specifico, mostra un miglioramento significativo in relazione alla percezione visiva e alle funzioni visuo-spaziali. Questi risultati possono essere spiegati da un incremento della flessibilità percettiva , della creatività e dalle apprese tecniche di visualizzazione imputabili allo specifico trattamento condotto. I pazienti con trattamento specifico si sono autovalutati significativamente meno depressi al Beck Depression Inventory. Il trattamento cognitivo a lungo termine ha determinato un miglioramento relativo alla memoria visuo-spaziale nel gruppo sottoposto al trattamento specifico. Le abilità ottenute grazie al trattamento specifico, sono state anche trasferite nella vita quotidiana, raggiungendo un miglioramento generale della qualità della vita dei pazienti. Alla luce di questo studio, ed anche di quelli che hanno dimostrato che le funzioni cognitive in pazienti con S.M. rimangono più o meno stabili nel tempo, e non subiscono un drastico deterioramento, vale la pena di fornire, accanto ad un trattamento farmacologico, un trattamento neuropsicologico in pazienti con S.M. che presentano sia disturbi cognitivi che comportamentali.
I disturbi comportamentali
I disturbi della sfera emotivo-affettiva nella sclerosi multipla sono stati descritti già nel 1877 da Charcot che osservò un quadro di compromissione delle facoltà intellettive insieme ad alterazioni emotivo-affettive. I disturbi affettivi possono essere sia a sè stanti nella storia clinica del paziente, sia un fattore di complicanza della malattia. Alcuni autori (Withlock e Siskind,1980) hanno riscontrato forme depressive esordite prima della diagnosi clinica della malattia; altri (Baretz e Stephenson,1981) hanno rilevato la presenza di depressione successiva all’esordio clinico della S.M., interpretandola come un adattamento ai problemi fisici e sensoriali, caratteristica legata alla malattia cronica progressivamente invalidante. Un’ultima ipotesi suggerisce che la depressione nella S.M. possa essere indotta da una disconnessione tra le aree corticali e subcorticali coinvolte nelle funzioni del sistema limbico (Sabatini et al.,1996). I disturbi psichici nella S.M. sono frequenti e si esprimono prevalentemente come depressione maggiore, depressione reattiva, depressione atipica, sindrome affettiva organica, disturbo dell’adattamento con depressione ed ansia, disturbi della condotta, episodi schizofrenici, disturbi di personalità che si esprimono prevalentemente come isterico, borderline e paranoide (Invernizzi et al.,1988). I disordini affettivi più ricorrenti sono: la depressione, l’euforia, l’ansietà e la labilità emotiva; più rari sono gli stati misti o bipolari.
La depressione è considerata nella maggior parte dei casi come psico-reattiva o secondaria, come una modalità di difesa in rapporto all’evento frustrante rappresentato dalla malattia. Questa forma di depressione tende ad essere relativamente comune negli stadi più precoci della S.M.; in altri casi è considerata organica o psico-organica, cioè dovuta ad una patologia cerebrale legata alla presenza nel sistema nervoso centrale di placche di demielinizzazione specie della regione limbica; mentre la depressione endogena è considerata legata ad una certa vulnerabilità genetica che determinerebbe sia la S.M. che la depressione stessa, in quanto espressione di fattori immunogenetici (Schiffer,1987). Non si ritiene però possibile che essa sia sempre strettamente legata alla demielinizzazione poiché esistono malattie con demielinizzazione centrale di origine vascolare, tossica o degenerativa non accompagnate da depressione, ed al contrario, esistono manifestazioni depressive, come ad esempio il Morbo di Parkinson, senza placche di demielinizzazione. La depressione risulta anche associata con un significativo indebolimento cognitivo e con lo stress sociale. La depressione nella S.M. recidivante-remittente, tende a sorgere quando i deficit cognitivi causano dei problemi nel lavoro e si innestano nelle relazioni personali (Gilchrist e Creed,1994). La percentuale di individui con S.M. colpiti dalla depressione oscilla dal 27% al 54% ed é tre volte maggiore rispetto alla popolazione generale. I pazienti depressi sono tipicamente descritti come nervosi, irritabili, preoccupati e scoraggiati. La depressione risulta maggiormente marcata nella fase di aggravamento della malattia rispetto alla fase di remissione. Sembra che vi sia una stretta correlazione fra depressione ed invalidità fisica (Fischer et al.,1994). La depressione è anche associata ad un aumento del rischio di suicidio. La maggioranza dei soggetti suicidi sono maschi con una seria invalidità, in fase avanzata della malattia, con segni di un insopportabile dolore psichico, incapacità di esprimere emozioni, di chiedere aiuto, in uno stato di isolamento interpersonale e con un atteggiamento di rifiuto di un potenziale sostegno (Berman e Samuel,1993).
L’euforia non sembra essere una patologia organica collegata ad una compromissione cerebrale (Rabins et al.,1986), ma piuttosto sembra essere dovuta alla messa in atto di un meccanismo di difesa impostato sulla conversione dell’ ansietà, attraverso la negazione dell’evento. In alcuni casi i soggetti riescono così a reagire alla loro disabilità fisica. L’euforia è uno stato mentale caratterizzato da allegria, felicità inadeguata, per intensità, alle circostanze. Il paziente si sente in forma, in salute, e mostra un ottimismo fuori luogo. I pazienti con S.M. possono ridere o piangere in seguito ad una minima stimolazione; si tratta di una sorta di riso o pianto patologico.
Altra situazione che più propriamente si contrappone alla depressione é l’ipomania caratterizzata da modificazioni del tono dell’umore, dall’ideazione accelerata ed egocentrica, dall’espressività psicomotoria ricca e mutevole. L’ipomania si può alternare alla depressione, manifestandosi attraverso il disturbo bipolare, specie sotto terapia cortisonica.
L’ansietà e gli stati di labilità emotiva tendono a presentarsi maggiormente nelle prime fasi della malattia, in modo particolare al momento della rivelazione o del sospetto diagnostico, momento in cui le capacità razionali sono soverchiate da quelle emotive.
Correlazione tra stato affettivo e prestazioni cognitive
Sono trascorsi circa quattro decenni prima che Surridge (1969) proponesse il primo studio controllato di mutamenti psichiatrici, nella S.M. Nessun autore prima di lui, aveva seguito dei pazienti nel tempo, per verificare se i mutamenti nello stato emozionale fossero correlati con mutamenti nell’attività della malattia. Sulla base di osservazioni cliniche dirette, ha riscontrato depressione nel 27% dei 108 pazienti con S.M., e solo nel 13% dei pazienti di controllo con distrofia muscolare. L’euforia é stata osservata nel 26% dei pazienti con S.M. ed é risultata completamente assente nei pazienti di controllo. Il risultato innovativo di questa ricerca é stata la forte correlazione trovata, nei pazienti con S.M., tra l’euforia e il deterioramento intellettuale. Nei successivi studi longitudinali la correlazione tra performance cognitive e disturbi psichiatrici, nei pazienti con S.M., non è apparsa però così evidente. Schiffer e Caine (1991) per determinare il grado di interazione tra i disturbi affettivi e il deterioramento cognitivo, hanno condotto uno studio neuropsicologico su 11 pazienti con S.M. da lieve a moderata e con diagnosi di depressione maggiore. I pazienti sono stati testati la prima volta quando si trovavano nella fase di depressione; una seconda volta, dopo sette mesi, quando si trovavano nella fase eutimica. Dal confronto delle prestazioni cognitive nella condizione di depressione, con quelle della condizione eutimica, non sono emerse differenze significative. Si è osservato, nella seconda condizione, un miglioramento nei test di memoria verbale, che non ha però raggiunto la significatività statistica. In compenso si è evidenziato un deterioramento delle funzioni cognitive connesse al linguaggio durante il periodo di studio. Lo stato affettivo non sembra influire sulle prestazioni cognitive dei pazienti con S.M. Alla stessa conclusione giungono gli autori di un altro studio longidudinale effettuato nello stesso anno (Mariani et al.,1991). La batteria neuropsicologica utilizzata per questo studio, comprendeva, oltre ai test neuropsicologici, anche un questionario autosomministrato per valutare un eventuale stato depressivo nei soggetti esaminati (Zung Depression Rating Scale). I punteggi di questo questionario sono così stati correlati con quelli relativi alle performance cognitive. I risultati non hanno dimostrato alcuna correlazione tra indici di depressione e prestazioni cognitive.
Correlazione tra disturbi neuro-comportamentali e fattori organici
L’anno seguente, Feinstein et al. (1992), hanno condotto uno studio di follow-up di 4 anni e mezzo, per documentare i cambiamenti psichiatrici, cognitivi e alle RMN, in 48 pazienti con lesioni cliniche isolate (CIL), come ad esempio neuriti ottiche, che sono spesso i precursori della S.M. Questo studio ha fornito una opportunità unica per monitorare i cambiamenti psichiatrici e cognitivi nella fase iniziale della malattia. Inoltre, la scarsità iniziale di una sintomatologia psichiatrica in soggetti con CIL, ha offerto l’opportunità di capire quali fattori eziologici possano contribuire maggiormente a sviluppare disturbi psichiatrici in coloro che in seguito svilupperanno la S.M. La batteria neuropsicologica utilizzata, sia nel test iniziale, che nel retest, comprendeva la Wechsler Adult Intelligent Scale (WAIS), impiegata per misurare il quoziente di intelligenza (QI), il Recognition memory test per parole e di facce, il Wisconsin Card Sorting Test, indicativo della capacità di astrazione, un test di velocità nel contare le lettere A sparse tra le altre lettere dell’alfabeto, impiegato come misura dell’attenzione uditiva, l’Auditory attention test, il Graded Naming test, un test di apprendimento di coppie di parole associate e lo Story recall test. Le verifiche neuropsicologiche hanno riguardato le seguenti funzioni: intelligenza, memoria di riconoscimento visuale e verbale, memoria verbale, capacità di astrazione, attenzione visiva e uditiva, abilità di denominazione di oggetti. La stima psichiatrica era invece basata sull’utilizzo della Clinical Interview Schedule (CIS), che misura sia sintomi nevrotici che psicotici, e della Hospital Anxiety and Depression Scale (HAD), un questionario di autovalutazione studiato per minimizzare l’influenza dei sintomi somatici, dei pazienti con S.M, sulla stima dei disordini affettivi. Per misurare l’influenza dei fattori sociali, percepiti dal soggetto, si é utilizzata la Social Stress and Support Interview (SSSI). Al termine dello studio, circa il 54% dei soggetti aveva sviluppato una S.M. definita. Questi soggetti sono stati suddivisi in base al tipo di S.M. sviluppata: S.M. recidivante-remittente, S.M. cronico-progressiva (primaria o secondaria). I risultati dello studio mostrano una diminuzione significativa della memoria visiva, tra la fase iniziale della ricerca e il retest, nell’intero gruppo; una diminuzione nelle prestazioni ai test di memoria immediata e ritardata, di apprendimento di coppie associate e di attenzione uditiva nel gruppo con S.M. cronico-progressiva. Lo stato psichiatrico misurato dal CIS, mostra una significativa crescita di morbosità nel tempo, nell’intero gruppo, con una tendenza con l’aumentare dei sintomi depressivi ed ossessivi all’esame finale. Nessun soggetto è risultato essere psicotico; in solo 2 soggetti, marcatamente invalidi e con un decorso di tipo cronico-progressivo, si è sviluppata euforia. Nel gruppo di soggetti con S.M., rispetto a quello con CIL, si sono osservati dei punteggi più alti al CIS, ma non è emersa una differenza significativa. Questa tendenza non significativa, era presente anche nei punteggi alla scala HAD: il gruppo con S.M. presentava valori medi più elevati per l’ansietà e la depressione. Le differenze appaiono più marcate quando il gruppo con S.M. viene suddiviso in recidivanti-remittenti (RR) e cronico-progressivi (CP). Il sottogruppo CP ha avuto dei punteggi doppi rispetto al sottogruppo CIL, e mentre tutti e tre i sottogruppi presentano gli stessi risultati alla scala di ansietà HAD, i punteggi relativi alla scala della depressione HAD nel gruppo CP, erano tre volte quelli degli altri due. I punteggi SSSI non mostrano un deterioramento nel tempo, cioè i soggetti del gruppo intero, non hanno percepito maggiore stress o ricevuto minor aiuto; l’SSSI era però significativamente collegato al grado di invalidità fisica, infatti il gruppo S.M. ha subito maggiore stress rispetto al gruppo CIL, come pure il gruppo RR rispetto al gruppo CP. Utilizzando il punteggio quantitativo delle lesioni osservate alla RMN, non é stata trovata alcuna significativa correlazione con lo stato psichiatrico. Le conclusioni di questo studio ci mostrano che dopo 4 anni il 40% dei soggetti sono divenuti dei casi psichiatrici; le patologie affettivo-comportamentali riscontrate, non sono in relazione con il grado di invalidità fisica che, però, è correlato al grado di stress sociale e di assistenza percepito dai soggetti. Questo studio é stato il primo ad illustrare come la morbosità cognitiva e psichiatrica, si evolvano man mano che la malattia progredisce da uno stato di lesioni cliniche isolate, ad uno stato di S.M. definita. E’ stato, inoltre, evidenziato il ruolo centrale della patologia cerebrale e delle variabili collegate al decorso della malattia, nel determinare l’estensione ed il tasso di progressione del deterioramento cognitivo, ma non è stata trovata nessuna relazione tra l’estensione della patologia cerebrale e lo svilupparsi di disturbi affettivi o neuro-comportamentali.
I sintomi psichiatrici non sembrano essere correlati nè a fattori organici, nè a fattori sociali quali lo stress. Stenager et al. (1994), inoltre, non hanno trovato alcuna correlazione tra depressione, misurata con il Beck Depression Inventory, e il deterioramento cognitivo, in 49 pazienti tra cui 45 con la forma cronico-progressiva e 4 con la forma recidivante-remittente di S.M..
Fino ad oggi, ancora poco si conosce sull’eziologia e l’evoluzione dei sintomi psichiatrici in soggetti affetti da S.M.. Vi è una scarsità di studi longitudinali sui fattori che possono incidere sullo sviluppo dei disturbi psichiatrici nella S.M., ed ancor di più sui cambiamenti comportamentali nella S.M. col trascorrere del tempo e quindi con l’evolversi della malattia.
I pochi studi effettuati in questo campo, hanno per lo più valutato l’incidenza di fattori organici e sociali sulla patogenesi dei disturbi affettivo-comportamentali nella S.M..
Blesa et al. (1988) hanno riscontrato una differenza significativa tra le immagini delle RMN di gruppi di pazienti con S.M. con e senza diagnosi psichiatrica. Lo studio é stato condotto su un campione di 40 pazienti affetti da S.M.: il 70% del campione era costituito da donne, il rimanente 30% da uomini. L’età media dell’intero campione era di 37 anni, la durata media della malattia era di 8.8 anni e il punteggio medio alla scala di invalidità di Kurtzke (EDSS), era di 3,1. Per la valutazione psichiatrica è stata utilizzata la Hamilton Depressioon Rating Scale (HDR-S) e il Beck Depression Inventory, per la misurazione della sintomatologia depressiva; la Hamilton Anxiety Rating Scale (HAR-S) e lo Spilberger State Anxiety Inventory (STAI) per la misurazione dello stato d’ansia. I risultati di questo studio indicano che il 68% dei pazienti esaminati (17 pazienti), presentavano un disordine psichiatrico; di questi 17, 14 avevano un disordine depressivo, 2 un disordine mentale organico, ed 1 paziente manifestava uno stato ipomaniacale. Dalla comparazione del gruppo con e senza disordini psichiatrici, si é trovato che la presenza di disordini psichiatrici aumentava significativamente con l’età e con l’aumentare della disabilità funzionale. Il gruppo di pazienti con disordini psichiatrici, inoltre, mostrava un aumento di lesioni periventricolari rispetto agli altri pazienti. La possibile implicazione del sistema limbico nei disordini psichiatrici suggerisce che la neuropatologia potrebbe essere responsabile della depressione nei pazienti con S.M. Alla stessa conclusione giunge anche Korkina (1983), attraverso un’altro studio longitudinale effettuato su 106 pazienti con S.M.. I risultati di questo studio, mostrano che le maggiori forme di disordini mentali correlati a questa malattia sono la sindrome astenica, ossessiva e depressiva. La correlazione tra i dati clinici e i risultati delle TAC evidenziano invece una relazione diretta tra la gravità del disagio mentale e il danno cerebrale. Anche Schiffer (1987), in uno studio della durata di cinque settimane, su 20 pazienti con S.M. ed episodi depressivi maggiori, ha trovato una relazione tra episodi depressivi e demielinizzazione del sistema nervoso centrale (SNC). Inoltre in 13 pazienti, gli episodi depressivi coincidevano con le esacerbazioni o ricadute.
Non si conosce ancora con precisione se i disordini della sfera affettivo-comportamentale siano una reazione psicologica all’avanzare della malattia neurologica o siano dovuti proprio a quest’ultima. In qualunque caso, sembra che la sintomatologia depressiva tenda ad aumentare durante le esacerbazioni o durante l’aumento della demielinizzazione, come dimostrato anche da Dalos et al. (1983). Alcuni autori (Engler e Vetter,1991), ipotizzano che ogni disturbo del SNC, specialmente cronico-infiammatorio e multilocalizzato, aumenti la probabilità di insorgenza dei sintomi psichiatrici. Anche studi su casi singoli giungono alle stesse conclusioni. Marazziti e Cassano (1996) riportano il caso di una donna di 38 anni con S.M. da circa 14 anni, che ha sviluppato dei disordini di panico. Le conclusioni di questo studio, durato due anni, suggeriscono un possibile comune substrato per la S.M. ed i disordini di panico, ipotesi sostenuta dalla rilevazione di anormalità nel lobo temporale della paziente osservate alla RMN. Salmaggi et al. (1995) riportano il caso di una paziente di 33 anni, affetta simultaneamente da S.M. e disordine bipolare di tipo I. Negli anni di studio, la paziente ha mostrato leggere fluttuazioni di umore, tranne all’età di 41 e 42 anni, periodo in cui ha, invece, sofferto rispettivamente di depressione e di un episodio maniacale, entrambi caratterizzati da un concomitante marcato peggioramento delle condizioni neurologiche. Anche in questo caso, sintomi neurologici e ricadute sono concomitanti con gli attacchi di disordine bipolare. La stretta relazione temporale tra i sintomi neurologici ed i due episodi psichiatrici, sostengono l’ipotesi che in questa paziente, le stesse alterazioni neuropatologiche possano aver causato sia disturbi neurologici che psichiatrici. Si può dunque ipotizzare una relazione tra i fattori organici e i disturbi comportamentali nella S.M..
Correlazione tra disturbi neuro-comportamentali e fattori sociali
Gli aspetti affettivo-comportamentali, in particolar modo la depressione, che risulta essere il disturbo psichiatrico che si riscontra nella maggior parte dei pazienti con S.M. che presentano un disturbo comportamentale, oltre ad essere correlati con fattori organici, sembrano essere anche correlati a fattori sociali, in particolare al livello di stress sociale e di necessità di assistenza, percepito dai pazienti (Feinstein,1995). Non è però ancora chiaro se l’aumento del rischio di esacerbazioni è susseguente ad eventi stressanti. Uno studio in particolare si è occupato di esaminare lo stress psicologico in soggetti con S.M.. Gli autori di questo studio (Foley et al.,1992), sembra che siano stati i primi a collegare fattori psicosociali come lo stress psicologico e la funzione immunitaria, in 22 pazienti con S.M. del tipo cronico-progressivo, con un punteggio tra 3,0 e 7,0 alla EDSS. I pazienti sono stati valutati con il Center for Epidemiological Studies Depression Scale (CES-D), scala che tende ad essere meno influenzata rispetto ad altre, dagli aspetti somatici della depressione, e con lo State-Trait Anxiety Inventory (STAI), che stima uno stato di ansia transitorio. I risultati indicano che l’ansia, la depressione e lo stress, sono correlati con i mutamenti immunitari, ma non si può ancora affermare con precisione se questi fattori nella S.M. siano un precipitante od una conseguenza dell’attivazione immunitaria collegata alla malattia. Franklin et al. (1988), hanno dimostrato che i pazienti con S.M. che hanno sperimentato un evento stressante nella loro vita, sono 3,7 volte più portati ad avere delle esacerbazioni cliniche nei sei mesi successivi all’evento stressante, rispetto ai pazienti con S.M. che non ne avevano avuti. Si può ipotizzare che lo stress possa essere una causa scatenante, probabilmente insieme all’ansia e alla depressione, che mette in moto i mutamenti infiammatori ed immunologici che caratterizzano la S.M..
Andamento degli aspetti neuro-comportamentali nel tempo
I primi studi che hanno esaminato la prevalenza e la natura dei disturbi emozionali in pazienti con S.M. sono stati condotti negli anni venti. Brown e Davis (1921), riportano "alterazioni mentali" nel 90% dei casi ed euforia nel 71% dei 14 pazienti da loro esaminati. Sachs e Friedman (1922), in un’analisi retrospettiva di 146 casi ospedalieri, riportano esplosioni di risa ed instabilità emozionale nel 17% dei pazienti, e mutamenti mentali nel 16%. Cottrell e Wilson (1926), hanno esaminato 100 malati di S.M., ricoverati, ed hanno concluso che "i sintomi cardinali della S.M. appartengono alla sfera emozionale, affettiva e viscerale, e sono costituiti da mutamenti nell’umore, nell’espressione e nel controllo emozionale"; essi hanno riportato una prevalenza di euforia nel 63% dei casi, di depressione nel 10%, umore labile nel 23% ed indifferenza nel 2% dei pazienti.
L’andamento degli aspetti neuro-comportamentali della S.M. sono stati fino ad oggi poco studiati. Escludendo lo studio longitudinale di Surridge (1969), descritto precedentemente, che sembra essere una eccezione a tutti gli altri studi effettuati su pazienti con S.M., sembra che nessun altro autore abbia seguito dei pazienti nel tempo esclusivamente per valutare i mutamenti comportamentali con l’evolversi della malattia. Amato et al. (1995), in uno studio longitudinale, che aveva come obiettivo principale quello di valutare il deterioramento cognitivo dei pazienti con S.M. col trascorrere del tempo, hanno anche valutato un eventuale stato depressivo nei soggetti esaminati. Tra i risultati di questo studio, vi è anche quello relativo al tasso di depressione, che è risultato significativamente più elevato dopo 4 anni, in pazienti con S.M. recidivante-remittente e cronico-progressiva e con una durata media della malattia, all’inizio dello studio, di circa 2 anni. Dalos et al. (1983) hanno riportato i risultati delle osservazioni di disturbi emozionali in 64 pazienti con S.M. che sono stati seguiti in uno studio controllato su base mensile per un periodo di un anno. La prevalenza ed il grado di disturbi emozionali nei pazienti in remissione durante lo studio, é stato paragonato con quello di pazienti con demielinizzazione attiva e con quello dei 23 pazienti di controllo. A tutti i soggetti facenti parte dello studio, é stato somministrato una parte del questionario di salute generale (GHQ), più precisamente i 28 items che indagano aree relative ai disturbi somatici, ansietà, depressione e problemi sociali. Il GHQ è stato utilizzato per rilevare dei cambiamenti nello stato emozionale dei soggetti col trascorrere dell’anno di studio. I risultati di questo studio dimostrano che i disturbi emozionali potenzialmente seri, sono associati all’aumento dell’attività della malattia in pazienti con S.M., infatti, i punteggi GHQ marcatamente anormali in pazienti con S.M. durante le fasi di esacerbazioni, contrasta con i punteggi medi GHQ ottenuti dai soggetti con S.M. in remissione. Questo implica che l’esacerbazione è un importante elemento di peggioramento dei disturbi emozionali, ma non si può determinare se l’aumento dei disturbi emozionali precede, è concomitante, o segue l’esacerbazione.
Si può, comunque, concludere che gli aspetti comportamentali nella S.M., sono associati alle esacerbazioni e alla progressione della malattia. L’aumentata sensibilità e il pronto riconoscimento dei mutamenti dello stato affettivo-emotivo che accompagnano le esacerbazioni, e l’andamento della S.M., potrebbero alleviare o diminuire l’angoscia emotiva, ed aiutare a superare eventuali nuovi deficit nei pazienti con S.M..
Dott.ssa Claudia Iannotta - Psicologa
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